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Capitolo 1

 

 

Sudore.

Gocce di sudore affiorano abbondanti dalla superficie del mio cranio rasato e liscio come una palla da biliardo. E ognuna è destinata a seguire un percorso a priori non noto ma regolato dalle leggi che governano il caos. Qualcuna scivola lungo la nuca per poi scorrere veloce giù lungo il collo e la schiena nuda e raggiungere infine il solco che separa le natiche.

Altre scendono dalla fronte e si infrangono sulle sopracciglia, fragili quanto inutili dighe totalmente inadeguate a contenere un fiume in piena. E da lì tracimano, aiutate dal ritmico movimento delle pelvi, per poi cadere come pioggia calda e acidula sul corpo che giace supino sotto di me. Infine riprendono il loro fluire, la loro identità non più discinta ma mischiata a quella del sudore della donna. Dal seno fino all’ombelico e poi giù lungo i fianchi per andare a morire assorbite dal lenzuolo ormai fradicio.

Fa caldo qui dentro. Un caldo infernale e umido come può essere solamente nelle estati milanesi. E i movimenti del rapporto sessuale di certo non rinfrescano il mio corpo snello e muscoloso.

Perlomeno la donna ha smesso di divincolarsi e non tenta più di sottrarsi alla violenza. I suoi occhi sono vitrei, fissi verso la finestra aperta da cui non entra nemmeno un filo d’aria, ma attraverso la quale si vede il cielo.

Il cielo.

Bianco e lattiginoso per la cappa di anidride carbonica che come una cupola sembra rivestire la città.

Soffocandola.

Abbasso ancora lo sguardo sul viso della donna mentre proseguo indifferente ad entrare e uscire da lei. Lacrime nate dalla fusione del ghiaccio presente nei suoi occhi quando poco fa mi ha osservato con odio scorrono sulle sue gote mescolandosi al mio sudore. Poi l’odio si è infine trasformato in disperata rassegnazione e ora le sue membra abbandonate da ogni volontario movimento assomigliano a quelle di una bambola di pezza sballottata senza riguardi. Di certo nel fondo della sua mente obnubilata dall’orrore spera solamente che tutto questo cessi al più presto.

Giro la testa verso lo specchio appeso al muro accanto al letto; secondo il canone del perfetto narcisista mi è sempre piaciuto osservare me stesso durante i rapporti sessuali. Niente telecamere e niente filmetti: solo scene in diretta.

Dal vivo.

Il mio corpo scolpito dalle ore trascorse in palestra e abbronzato dal sole è reso lucido dal sudore. I muscoli guizzano ad ogni movimento impietoso mentre i miei occhi verdi contemplano se stessi con morboso godimento.

Ma nel momento del massimo piacere le palpebre calano sulle pupille interponendo un sipario sullo spettacolo del mio stesso orgasmo.

Poi, dopo lunghi istanti, riapro gli occhi e...

 

Mi risveglio da quest’altro sogno violento. La donna è sparita e la stanza in cui mi trovo ora non somiglia nemmeno vagamente a quella in cui c’era il letto su cui giacevo poco fa sopra un corpo sconosciuto.

La sola cosa in comune con il sogno è il caldo.

Un caldo che fa sudare ad ogni respiro, per quanto breve questo possa essere. Lo soffoca sul nascere, quasi impedendo all’aria di ossigenare il sangue attraverso i polmoni.

La pioggia non cade da settimane ed un vento rovente proveniente dall’Africa si carica di umidità durante il suo passaggio sul Mediterraneo. Il risultato sono lunghe giornate a più di trentacinque gradi centigradi con oltre il novanta percento di umidità: davvero troppo anche per Milano. E le previsioni non danno la seppur minima speranza di una tregua.

Mi muovo con fatica nel letto alla ricerca di un po’ di frescura, ma ogni tentativo appare vano: lo sforzo è tale per cui ora ho più caldo di prima. Il lenzuolo e il cuscino sono madidi del mio sudore.

Allora mi alzo e mi dirigo nel bagno alla ricerca del sollievo offerto dalla doccia. Se non dovesse piovere entro breve le autorità cittadine saranno costrette a razionare l’acqua e anche questa via di fuga dal caldo rimarrà preclusa.

Giro il rubinetto ed un getto ozioso sgorga con fatica dalla tubatura. L’acquedotto è quasi vuoto e la pressione è ormai scarsa.

Le prime timide e svogliate gocce si infrangono sulla ceramica, ma il suono prodotto dal loro impatto non giunge al mio cervello.

Perché sono sordo.

Sono sordo da quando il ‘killer della Ghisolfa’, come lo definirono i giornalisti a quel tempo, esplose alcuni colpi di pistola in prossimità delle mie orecchie mentre si faceva scudo con il mio corpo per proteggersi dagli spari dei miei colleghi poliziotti. Questo almeno è quanto mi raccontarono in seguito. Perché a causa della violenta botta che l’assassino mi diede al cranio persi anche la memoria e di tutta la mia vita precedente non ricordo nulla.

Nulla.

Mi risvegliai in un letto d’ospedale con la testa fasciata. Il sangue continuava a sgorgare ad intervalli irregolari dai miei timpani ed i medici erano preoccupati.

Mentre io non sapevo chi fossi.

Con il sottofondo di un fruscio sempre più simile ad un fischio e sempre più assordante cercavo disperatamente di ricordare me stesso.

Senza un risultato proporzionale all’immane sforzo con cui costringevo la mia mente a lavorare.

Nulla.

Nemmeno il mio nome.

I medici dichiararono normale questa amnesia ed espressero fiducia sulla temporaneità della stessa.

Avevano torto.

Sono passati cinque anni e tutto quello che so di me lo appresi dai racconti di amici e colleghi. Io ascoltavo le loro parole, ma era come se mi stessero raccontando la trama di un film appena visto al cinema. Solo che io non potevo comprare il biglietto per il medesimo spettacolo. O noleggiare un DVD da guardare a casa.

Il mio nome è Pietro Ferri.

È scritto su tutti i miei documenti.

Ma è un nome che non mi sento addosso. Come quando da ragazzini a Carnevale ci si traveste per trasformarsi per breve tempo in qualcun altro.

La mia vita è ora un Carnevale che dura da cinque anni. La sola differenza è che non posso togliermi da dosso questi panni che ora percepisco falsi e che non sono nemmeno colorati come i costumi di Carnevale.

Perché non so quali sono quelli veri.

Su una cosa i medici avevano tuttavia ragione. Avrei perso l’udito. Nel giro di poche settimane il tinnito all’orecchio era divenuto talmente forte da costringermi ad ascoltare musica ad alto volume in cuffia per poter dormire. In seguito anche quell’espediente non fu più sufficiente e la mia mente già sofferente per la mancanza di una identità in cui riconoscersi rischiò di impazzire, stressata dal fischio incessante e dalla mancanza di sonno.

Così il cervello si difese e tagliò il collegamento con quel canale di comunicazione, rinunciando ad uno dei sensi pur di sopravvivere.

Da quel momento vivo nel silenzio assoluto.

Totale.

Guardo il mondo muoversi attorno a me ma non ne odo il brusio. Come un film muto d’altri tempi.

Muto, ma con i colori e senza le scritte per spiegare quanto sta accadendo sullo schermo della vita.

Ho imparato a leggere le labbra. Per non dover apprendere l’alfabeto dei sordo-muti.

Per non sentirmi diverso.

Buffo l’animo umano. Roberta, la mia ex-collega della omicidi, dice che da quando mi conosce ho sempre cercato di distinguermi dagli altri. Perché la mediocrità mi atterrisce, le dicevo. E ora che diverso lo sono davvero faccio di tutto per non sembrarlo. Ma forse semplicemente certi avvenimenti ti cambiano la vita.

E non poco.

Così oggi nella mediocrità vorrei trovare rifugio e conforto. Confondermi con la massa per non dover studiare la mia vita al fine di ricordarmi chi sono.

Riconoscermi in qualcuno.

Chiudo il rubinetto e il debole getto si arresta con lentezza, pigro. Le gocce scivolano dal mio cranio lucido ed io non so dire se siano di acqua o già di nuovo sudore.

Non mi asciugo nemmeno, troppa fatica, e mi guardo nello specchio. L’immagine riflessa mi trasmette il ricordo di un uomo che conosco da soli cinque anni. Ma la foto incollata al mio passaporto, poco diversa dalla figura che ora mi osserva quasi con astio, dice che ne ho trentotto. E allora dove sono gli altri trentatre?

Una volta di più serro i pugni con forza nel tentativo di sconfiggere la frustrazione. I miei occhi verdi fiammeggiano nello specchio, ma la rabbia che provo nei confronti del mio cervello in corto circuito è totalmente vana.

Tuttavia cerco di vedere i lati positivi della mia condizione; la sordità totale e l’amnesia in apparenza permanente mi sono valse una pensione di invalidità con la quale posso mantenermi senza lavorare. Ero un poliziotto, quindi sono quasi un invalido di guerra. Ho pagato a caro prezzo i miei servigi allo Stato e ora lo Stato mi ricompensa.

E poi posso dormire in qualunque condizione di rumore; nessun suono mi può distrarre.

Ma mi manca la musica.

La musica.

Le canzoni che ricordo sono ormai suoni sbiaditi come i colori di una fotografia da troppo tempo esposta alla luce del sole. A volte canto, ma non sento il suono della mia voce. Oppure fischietto, ma non so se sono intonato.

Ho ancora lo stereo e i CD. Ogni tanto ne metto uno e porto il livello del volume al massimo. Così non sento il suono attraverso le orecchie, ma lo percepisco attraverso la pelle e la cassa toracica sollecitata dalla pressione sonora.

Sento il ritmo e sento i bassi. Ma mi mancano la melodia di un piano, l’assolo triste di un sassofono o lo struggente canto di una chitarra.

I miei vicini non sono molto contenti, ma tollerano. In fondo faccio così principalmente durante il giorno, quando comunque nessuno riposa.

Ho anche una chitarra. Ogni tanto la imbraccio e lascio le dita pizzicare le corde. Si muovono agili e sembrano, almeno loro, ricordare accordi e posizioni appresi in un momento senza tempo, sospeso dietro una cortina impenetrabile.

Abbandono questi pensieri, prendo in mano il giornale di oggi ed esco sul piccolo balcone affacciato sulla strada; dal terzo piano osservo il mio mondo muto dare inizio ad una nuova soffocante giornata. Guardo il punto luminoso del sole spalmato come una macchia chiara dalla coltre caliginosa e lo immagino come una palla di fuoco destinata ad incendiare la terra.

Sono le otto e il termometro digitale appeso accanto alla porta finestra segna già trentaquattro gradi.